Palle cinesi – la mia autobiografia 10 Capitolo

Nel 2004, ho scritto la mia auotobiografia. L’intenzione era quella di parlare delle tante esperienze sul palco, e di tutto ciò che ruota attorno al mondo della musica, ma scrivendolo mi sono accorto di avere molti argomenti della mia vita privata che avrebbero potuto interessare alle persone che mi seguono ed ho voluto condividerli con loro.

“Palle cinesi”, così si chiama il libro (Allori ed.) parla della mia vita e delle mie esperienze da quando ero bambino fino a quando ho fondato la band.

Per ragioni di privacy alcuni nomi sono stati cambiati con nomi di fantasia.

“Conosco e sono amico di Titta da tempo. Con lui e la sua musica ho passato tanti momenti piacevoli da arrivare egoisticamente a considerarlo un menestrello quasi privato,come se cantasse solo per me e si dedicasse solo al mio divertimento. Mai però avrei pensato che la sua sfrontatezza e la voglia di mettersi a nudo l’avrebbe portato a regalarci la storia della sua vita. Una storia di piccole storie,di gente comune lontana dal passaggio dei grandi eventi.Una vera e propria autobiografia. Simpatica e gradevole. Densa di episodi vissuti,ricordi semplici e forse apparentemente insignificanti, ma veri,come vero e pieno è il suo bisogno di mettersi alla prova e di vivere esperienze sempre nuove. Raccontare di sè è un momento importante,una dichiarazione dei propri sentimenti e stati d’animo che serve a capire meglio se stessi e aiuta gli altri a comprenderci. Impone un lavoro di recupero e trasmissione della memoria,che significa entrare nell’intimo dei ricordi e del proprio vivere quotidiano. A costo di riportare a galla anche episodi dolorosi del proprio vissuto. E’ un segno di grande generosità e vi ritrovo appieno il Titta che conosco”.

(Enrico Laghi)

 

CAPITOLO 10

“I due anni di Roma tra droghe,puttane,trans”

Dovevo essere un folle a prendere una tale decisione. Come potevo io che venivo da una piccola città di provincia, andare a Roma e diventare un attore, quando prima c’erano migliaia e migliaia di aspiranti molto più bravi di me. Come potevo fare un’accademia del cinema o un’altra scuola di pari livello se non avevo neanche finito le superiori.

Ad ogni modo ero convinto che ce l’avrei fatta,ero sicuro che avrei fatto l’attore, ma soprattutto morivo dalla voglia di andare a vivere in una grande città, volevo conoscere gente nuova. Volevo conoscere il mondo. I miei genitori non si opposero alla mia decisione, inoltre non avevo legami sentimentali, la mia prima vera “storia” era finita due anni prima e non avevo più voluto averne altre. Rimasi comunque in ottimi rapporti con lei.

Nel mese di Maggio del 1990 conobbi una ragazza della mia città che abitava da alcuni anni a Roma e che frequentava l’università. E’ incredibile come il fatto di desiderare ardentemente una cosa, faccia avverare le proprie esigenze. Elena era perfetta per me. Abitava da quattro anni a Roma e quindi conosceva la città piuttosto bene. Le chiesi di portarmi “PORTAPORTESE” il giornale di annunci economici della capitale, così avrei potuto cominciare a cercare un appartamento. Me lo spedì. Io le dissi che non avevo ancora trovato nulla, né la casa né un lavoro per potermi mantenere, ma lei molto gentilmente mi disse che per i primi mesi potevo stare nell’appartamento che lei condivideva con altri studenti . Naturalmente io avrei diviso l’affitto con loro. Così alla fine di Maggio mi trsferii a Roma.  Era il 1990 e di lì a poco sarebbe iniziato il campionato mondiale di calcio di ITALIA 90. Era il mondiale di Totò Schillaci e della nazionale di Vicini. Purtroppo l’Italia non arrivò in finale.

Schillaci-Italia-90

Roma stava per essere invasa da milioni di tifosi da tutto il mondo e forse anche per questo feci fatica per trovare un appartamento in affitto. Avevo contattato diversi numeri telefonici ma non avevo concluso nulla. Il primo appartamento che mi interessava era troppo lontano dal centro. Il secondo costava troppo, ed il terzo mi andava bene, ma i tre studenti che lo occupavano mi dissero che non accettavano fumatori, ed il quarto era perfetto per me; era economico, dovevo dividerlo soltanto con un’altra persona, ma la padrona di casa mi disse che non accettava aspiranti attori. Aveva già avuto esperienze negative con loro e ripeteva che non voleva saperne di avere degli artisti tra i piedi. Io le dissi che non ero un artista, che ero semplicemente uno studente, ma non ci fu nulla da fare. Comunque non ero preoccupato più di tanto visto che Elena insisteva che sarei potuto rimanere da loro fino a che non avessi trovato un posto in cui stare. Ma la cosa un po’ mi pesava poiché oltre le tre inquiline ,c’era un sacco di gente in più oltre a me che dormiva nel loro appartamento. Più che un appartamento sembrava un accampamento. Le persone in più erano quattro tra cui io.  Pertanto eravamo in tutto sette. L’appartamento era molto bello. Si trovava in una zona centrale di Roma a due passi dalla stazione Termini,era molto spazioso ma certo non per sette persone. Anzi otto perché poi si aggiunse anche Beatrice.  Ad ogni modo tra le persone in più c’era P. un ragazzo siciliano che faceva il muratore che era lì perché doveva piacere ad una delle ragazze, c’era L. che frequentava la scuola di ballo ed il suo ragazzo di origine giamaicana che faceva il ballerino nel corpo di ballo della RAI e c’ero naturalmente io. L’appartamento si trovava al sesto piano di una palazzo costruito probabilmente nei primi del 900. La cosa più vantaggiosa, consisteva nel fatto che l’appartamento, essendo stato costruito così tanti anni prima, aveva dei muri molto spessi. Erano larghi almeno mezzo metro. Di conseguenza era possibile fare parecchio rumore e nessuno si sarebbe lamentato. Facevamo feste con la musica molto alta, ma e nessuno diceva niente. Semplicemente da fuori non si udiva nulla.  Ad ogni modo io non ero lì per fare feste. Dovevo darmi da fare, non solo per trovare un alloggio, ma anche per trovare un lavoro, poiché con tutti i risparmi che avevo accumulato dopo essermi licenziato sarei andato avanti per due o tre mesi, non di più. Poi avrei dovuto lavorare. Per quanto riguarda la scuola invece avevo rimandato l’inizio del corso a Settembre. Di lì a poco sarebbe arrivata l’estate, per cui mi sarei iscritto in autunno in uno dei tanti corsi di cinema e teatro che abbondavano a Roma. E poi c’erano i mondiali e a Roma era tutto fermo.

Cominciai a conoscere gente. Frequentavo il “giro” degli universitari, e spesso mi recavo alla facoltà di psicologia , la stessa che frequentava Elena e dopo qualche settimana tutti quelli che mi conoscevano pensavano che fossi anch’io uno studente. Avevo conosciuto una ragazza di Latina. Mi chiese come mai mi chiamavo Titta e se quello era il mio vero nome, e io le dissi di sì, non so perché ma le dissi una balla forse perché pensavo che secondo lei faceva fico il mio nome. Le dissi che ero di origine greca e che mi chiamavo Titta Anastopulos. Il cognome lo presi da un calciatore greco che negli anni ottanta aveva militato in serie A nell’Avellino. In quel periodo iniziò una contestazione studentesca.

I ragazzi avevano occupato la facoltà di psicologia e ben presto tutte le facoltà universitarie della capitale furono occupate. Io non conoscevo bene il motivo per cui protestavano, ma sapevo che erano contro qualcosa e questo mi bastava. Così mi unii a loro, ed una sera durante l’occupazione, al cineforum della facoltà vidi un gran bel film che si intitolava “L’amico ritrovato”. Il movimento prese il nome di “Pantera”. Si chiamava così perché in quel periodo una grossa pantera era scappata da un circo, nella zona della Toscana , e dopo diversi giorni le autorità non erano riuscite ad individuarla e a catturarla. La contestazione comunque durò diversi giorni e si espanse in tutta Italia.

pantera

Una mattina ero seduto su una panchina e leggendo il giornale degli annunci economici vidi un appartamento che poteva fare al caso mio. L’affitto mensile richiesto ammontava a trecentomila lire al mese, ed io un po’ mi stupii per il prezzo così basso visto che un monolocale costava almeno ottocentomila lire al mese. Ma pensai che era per via del fatto che era situato in una zona molto periferica, ed anche se avevo deciso di scartare la possibilità di andare ad abitare così lontano dal centro, pensavo che per quella cifra ne potesse valere la pena. Ad ogni modo chiamai il numero dell’annuncio, e presi un appuntamento. Per andare a Tor Bella Monaca,così si chiamava il quartiere dove si trovava l’appartamento, dovevo prendere l’autobus dalla stazione Termini.  Durante il tragitto mi resi conto che la zona era molto lontana. L’autobus aveva imboccato la via Casilina,una delle strade più lunghe e più trafficate di Roma e dopo più di mezz’ora non ero ancora arrivato. Io non avevo l’auto con me, l’avevo lasciata a Ravenna, e quindi avrei dovuto fare quella strada tutti i giorni in autobus nel caso fossi andato a stare lì, e tutto ciò era un po’ scomodo. Ma il fatto che avrei pagato un monolocale tutto per me,senza condividerlo con altre persone a sole trecentomila lire al mese mi faceva propendere ancora per il sì.  Arrivai all’indirizzo giusto e suonai il campanello. Mi rispose un uomo piuttosto basso, con i capelli molto corti,doveva averli rasati a zero da poco, e così ad occhio poteva avere sui 40 anni.  Salimmo le scale ed entrammo nell’appartamento. All’interno era tutto ben arredato e tenuto bene, mi fece vedere la cucina, il salotto, un ripostiglio ed il bagno. Mi resi conto che era un po’ più di un monolocale anzi era praticamente un appartamento a tutti gli effetti. Infine mi mostrò la camera da letto che era molto spaziosa e mi confermò che il prezzo di tutto ciò era di trecentomila lire come d’accordo. Poi mi disse “Ecco noi dormiremo qui..” “ Noi??!! “ dissi io “Sì noi” mi ripeté . Nella stanza c’era un letto matrimoniale e a quella vista come d’incanto mi spiegai il motivo per cui l’affitto era così basso. Tornai a casa e cercai di non pensarci più, avevo preso un bel granchio!!  Dopo qualche mese di permanenza nella capitale, mi resi conto che non era difficile incontrare sulla propria strada degli omosessuali. Ed io ero molto giovane, in cerca di casa e lavoro, per cui molto appetibile per loro.

Mi resi conto che alcuni mettevano gli annunci solo per poi “provarci” appena si presentava l’occasione, e la cosa mi disturbava abbastanza. Non per i loro gusti sessuali per i quali bastava dire un semplice e deciso “no grazie”, quanto per il fatto che non riuscivo a capire quali fossero le persone veramente serie. Un giorno lessi l’ennesimo annuncio e dopo aver preso un appuntamento telefonicamente mi recai sul posto. Si trattava di una casa situata molto vicino alla stazione Termini, per cui mi ci recai a piedi visto che si trovava vicinissimo dalla casa di Elena. Suonai il campanello e venne ad aprirmi un signore sui sessanta,completamente calvo e con un paio di occhiali da vista con le lenti tonde e molto piccole. Mi fece accomodare in casa e ci presentammo. Si chiamava Luciano ed era di origine pugliese. Parlammo un po’ prima di arrivare al dunque, e l’idea che mi feci subito di lui è che fosse una persona sola. Senza affetti. Mentre mi parlava, io ero seduto su una sedia impagliata e mi guardavo intorno, quasi annoiato dalle sue parole. Mi accorsi che sulla credenza c’era la foto di una donna che aveva più o meno la sua età e ne dedussi che fosse sua moglie. Il che mi tranquillizzava circa i suoi gusti sessuali. Ma lui accortosi di ciò mi disse che quella era sua moglie che era morta da due anni. La loro storia finì diverso tempo prima che lei morisse perché lui si scoprì gay. Ma continuarono a vivere insieme. Mi resi conto che costui era un altro che ci voleva “provare”. Ma a differenza dei precedenti era abbastanza simpatico e mi pregò di rimanere ancora con lui per fare due chiacchiere. Così restai, anche perché essendo da pochissimo nella capitale, non conoscevo nessuno proprio di Roma. Così la situazione era un modo come un altro per conoscere una persona. Inoltre, sono sempre stato attratto dalla persone diverse da me. Rimasi a chiacchierare per circa un’ora e mezza e alla fine pur avendo rifiutato di andare ad abitare da lui, mi prese in simpatia e mi disse che poteva aiutarmi a trovare un lavoro e mi diede il numero di telefono di una persona di sua conoscenza che gestiva parcheggi a pagamento in alcune zone di Roma.

Lo chiamai il giorno successivo e quello fu il mio primo lavoro a Roma: il parcheggiatore.

Mi presentai l’indomani negli uffici dell’azienda, che si trovava vicino al Colosseo e mi fu spiegato in cosa consisteva il mio lavoro. Mi dissero che dovevo semplicemente cambiare le banconote dei clienti in moneta affinché potessero fare il biglietto nel parchimetro, e se qualcuno si allontanava senza fare il biglietto dovevo chiamarlo ed invitarlo a pagare, e se si rifiutava gli avrei messo sul tergicristallo dell’auto, una specie di multa. Mi dissero che si trattava di una segnalazione ai vigili urbani. Dopo una settimana cominciai. Come primo giorno dovevo recarmi in un parcheggio situato nella zona “africana”, così la chiamavano. Il che mi prese bene. Immaginavo che sarei andato a lavorare in un quartiere multietnico, con negozi caratteristici ed esotici, ma scoprii ben presto che quel quartiere lo chiamavano il quartiere africano semplicemente perché le vie che lo formavano si chiamavano Via Somalia, Via Mogadiscio,Viale Eritrea ecc.  Capii che i romani hanno un modo tutto loro di semplificare le cose.

Ad ogni modo mi recai sul posto di lavoro. Io lavoravo in Viale Libia.

I primi giorni mi affiancarono ad un tizio che lavorava lì da un po’ di tempo e che si era licenziato, io sarei subentrato al suo posto e Carlo, così si chiamava ,doveva rimanere un’altra settimana per insegnarmi il lavoro. Questo Carlo era un tipo veramente pazzesco. Mentre lavoravamo gli dissi che ero lì perché volevo fare l’attore. Non l’avessi mai detto!  Mi disse che conosceva tutti gli attori più importanti e che avrei sfondato grazie a lui! Era proprio uno di quei personaggi che si vedono nei film di Verdone. Non pensavo che esistessero veramente, e la cosa più drammatica era che costui era tremendamente serio quando mi raccontava tutto ciò . Sembrava vivesse solo per quello. Ed io anche se avevo solo 20 anni non potevo certo credere a tutte quelle balle! Ad ogni modo tra una balla e l’altra, Carlo mi diceva quello che dovevo fare, mi spiegava come funzionava il parchimetro, cosa dovevo scrivere sui foglietti-multa e non perdeva occasione di ribadire che lui non avrebbe fatto il parcheggiatore ancora per molto, perché di lì a poco avrebbe girato un film con Fellini che lo aveva scelto dopo un provino . Seppi poi,da alcuni colleghi che era stato arrestato poiché nell’auto gli avevano trovato mezzo chilo di cocaina. Verso la fine di Luglio potevo dire di essermi sistemato, l’ Italia era stata eliminata ai rigori dall’Argentina, ma ormai la delusione andava via via scemando.  Anche la situazione “casa” era sistemata, poiché alla mia amica Elena rimanevano pochi esami, e non viveva più a Roma. Per cui subentrai al suo posto nella casa e ben presto anche gli “ospiti” trovarono una sistemazione. Alla fine nell’appartamento rimanemmo ad abitarci in quattro. Gli altri ragazzi erano studenti universitari. C’era E. un ragazzo di Bari con il quale mi sarei scontrato più volte verbalmente e sarei arrivato a cambiare casa per non venire alle mani, c’era F. un tipo simpaticissimo di Tarquinia un paese vicino Roma, ed infine O. un ragazzo che lavorava come elettricista. Il lavoro al parcheggio procedeva senza intoppi, ed era molto comodo come orari. Lavoravo una settimana la mattina dalle 8 alle 14 ed una settimana il pomeriggio, iniziavo alle 14 e finivo alle 20. Per cui lavoravo solamente sei ore al giorno. Una mattina, un vigile che da qualche minuto si aggirava all’interno del parcheggio dove lavoravo venne verso di me e mi fece una domanda. Mi disse proprio queste parole:

Ma che quel posto laggiù n’fonno è riservato pe’ J’andicappati?”

Io rimasi sconcertato per il fatto che un vigile facesse a me quella domanda e soprattutto che non sapesse darsi una risposta. Feci molta fatica a rispondergli, pensavo mi prendesse in giro, ma poi dissi “ Beh..sì.., se c’è il simbolo disegnato a terra con la sedia a rotelle, significa che il parcheggio è riservato alle persone con handicap”. E lui fece “ Ah vabbè..ho capito..no perchè uno m’ha chiesto se poteva parcheggià..e j’ho detto de sì”. Rimasi a lungo a pensare a quello che era successo, sembrava una scena di un film con Alberto Sordi.

Il mio lavoro procedeva, e ben presto mi accorsi che effettivamente una cosa sacrosanta Carlo me l’aveva insegnata. Mi disse che quando dovevo chiamare qualcuno che si allontanava senza fare il biglietto dopo avere parcheggiato, dovevo semplicemente dire con voce ferma: “Dica?!”, ed il tizio si sarebbe voltato.  Ed era proprio così, perché io non essendo di Roma non ero abituato a chiamare le persone in quel modo per cui all’inizio mi venne spontaneo dire :“ Ehi lei..” oppure :”Mi scusi..signore..dico a lei” ma nessuno mi dava retta, si voltavano solo quando gridavo semplicemente ad alta voce una sola parola:”DICA??!.”  Un giorno successe un fatto che per poco non si trasformò in tragedia. Il parcheggio si trovava proprio nel mezzo del Viale, era formato a spina di pesce e nei lati scorreva il traffico nei due sensi.  Sui marciapiedi vi erano numerosi negozi di abbigliamento e supermercati per cui la zona era molto trafficata. Una mattina un’auto cominciò a muoversi lentamente da sola, il proprietario l’aveva parcheggiata evidentemente senza la marcia inserita e senza tirare il freno a mano. Per cui la macchina si stava dirigendo pian piano sulla strada poiché il parcheggio era leggermente in discesa. Anzi prese più velocità dopo pochi secondi. Io non sapevo cosa fare, provai ad aprire lo sportello in corsa ma era chiuso a chiave, ero da solo e non me la sentivo di mettermi davanti la macchina per fermarla solamente con la mia forza. Forse ci sarei riuscito ma in quel momento non pensavo di potercela fare. Oppure avrei potuto fermarla mettendo una zeppa di legno sotto le ruote dell’auto, ma certo non ne avrei avuto il tempo. Ad ogni modo la macchina attraversò interamente il viale di traverso e fermò la sua corsa quando andò a sbattere nel marciapiede.

Il caso volle che in quel momento non passava nessuno poiché il semaforo era rosso e la fila era ferma una ventina di metri prima.

La prossima settimana il capitolo 11 

“Enzo di Napoli”