Palle cinesi – la mia autobiografia 12 Capitolo

Nel 2004, ho scritto la mia auotobiografia. L’intenzione era quella di parlare delle tante esperienze sul palco, e di tutto ciò che ruota attorno al mondo della musica, ma scrivendolo mi sono accorto di avere molti argomenti della mia vita privata che avrebbero potuto interessare alle persone che mi seguono ed ho voluto condividerli con loro.

“Palle cinesi”, così si chiama il libro (Allori ed.) parla della mia vita e delle mie esperienze da quando ero bambino fino a quando ho fondato la band.

Per ragioni di privacy alcuni nomi sono stati cambiati con nomi di fantasia.

“Conosco e sono amico di Titta da tempo. Con lui e la sua musica ho passato tanti momenti piacevoli da arrivare egoisticamente a considerarlo un menestrello quasi privato,come se cantasse solo per me e si dedicasse solo al mio divertimento. Mai però avrei pensato che la sua sfrontatezza e la voglia di mettersi a nudo l’avrebbe portato a regalarci la storia della sua vita. Una storia di piccole storie,di gente comune lontana dal passaggio dei grandi eventi.Una vera e propria autobiografia. Simpatica e gradevole. Densa di episodi vissuti,ricordi semplici e forse apparentemente insignificanti, ma veri,come vero e pieno è il suo bisogno di mettersi alla prova e di vivere esperienze sempre nuove. Raccontare di sè è un momento importante,una dichiarazione dei propri sentimenti e stati d’animo che serve a capire meglio se stessi e aiuta gli altri a comprenderci. Impone un lavoro di recupero e trasmissione della memoria,che significa entrare nell’intimo dei ricordi e del proprio vivere quotidiano. A costo di riportare a galla anche episodi dolorosi del proprio vissuto. E’ un segno di grande generosità e vi ritrovo appieno il Titta che conosco”.

(Enrico Laghi)

 

CAPITOLO 12

“Giuseppe il barbone”

 

Di fronte alla stazione c’era un famoso night club. Io ed Enzo c’eravamo stati qualche settimana prima ma non era il massimo; le ragazze erano di basso livello e quasi tutte tossiche . Mi facevano una gran pena. Alternavano uno spettacolo sexy ad un film porno, quasi sempre anni ’70. La fotografia non era gran che. Non mi è mai piaciuto il tipo di immagine del cinema degli anni ’70. Ma le attrici sì, erano tremendamente eccitanti. Anzitutto avevano il seno ben fatto e naturale, mentre nei film porno anni ’90 iniziava l’era del silicone.

E poi avevano un fisico che era diverso da quello delle donne di adesso. Forse per via delle abitudini o il cibo che si mangiava che a differenza di ora era di certo più naturale, e le faceva risultare il massimo della genuinità.

Ad ogni modo io ed Enzo entrammo in un baretto situato proprio di fianco al night.

Il bar era semivuoto. Al bancone, a servire,c’era un barista di colore. Mi guardai un po’ attorno, poiché qualche sera prima,sempre in quella zona mi era capitata una cosa un po’ sgradevole. Avevo finito il turno serale al parcheggio ma siccome c’era lo sciopero degli autobus non ero riuscito a prenderne uno che mi avesse portato fino alla stazione. Così mi ero fatto metà strada con i mezzi, poi era iniziato lo sciopero e mi feci l’altra metà ,circa tre chilometri a piedi. Arrivai nei pressi della stazione con la lingua penzolante stile Fantozzi. Era molto caldo e dovevo assolutamente bere un po’ d’acqua. Entrai in un bar e chiesi un bicchiere di acqua naturale.

Notai che il barista era di colore, anzi tutti i clienti presenti in quel momento nel bar, erano neri. Ma non diedi importanza alla cosa, intuii che mi trovavo in una bar gestito e frequentato da immigrati. La cosa era del tutto normale per me. Ma non per loro evidentemente poiché il barista mi intimò di andarmene. Io quasi non credevo a quello che diceva mi sembrava così assurdo e quasi mi misi a ridere, ma lui non rideva affatto. Così bevvi l’acqua con una certa fretta e me ne andai. Per cui come dicevo appena entrai nel bar con Enzo quella sera, mi accertai che non fosse quello, ma l’atmosfera mi sembrava tranquilla.

Oltre al barista c’era una ragazza,anche lei nera, un tipo italiano che mi chiese degli spiccioli e un poliziotto che finito di bere un caffè si allontanò dal bar. Ordinammo due birre medie. Io mi sedetti fuori sul marciapiede ad un tavolo che dava sulla strada mentre Enzo manco a dirlo attaccò discorso con la bella nera. Dopo una mezz’oretta entrò un tipo anche lui di colore, bassettino con dei baffetti sottili e i capelli ricci ricci. Fu strano perché egli mi guardò mentre entrava nel bar ed io notai che aveva una faccia simpatica e sorridente. Così gli sorrisi anch’io, come se lo conoscessi. Ordinò una birra piccola e venne a sorseggiarla fuori sul marciapiede. Enzo stava sempre parlando con la ragazza al bancone. Non mi ricordo se fui io il primo a rivolgergli la parola o fu lui, fatto sta che attaccai discorso con il tipo che era appena arrivato. Appena aprì bocca, comincia a ridere come un pazzo, perché costui era nero al 100% ma parlava in milanese stretto, quasi in dialetto.

Tutto ciò era troppo divertente e gli chiesi come mai parlava in milanese, e mi scusai perché gli avevo appena riso in faccia. Si chiamava Giuseppe e mi raccontò di essere Somalo. Era stato adottato da una famiglia di Milano, dove era cresciuto quando aveva due anni, ed ora ne aveva circa quaranta. . Poi i suoi genitori adottivi ebbero delle disavventure con la legge così venne affidato ai servizi sociali. Quindi l’orfanotrofio. Da lì aveva iniziato una serie di fughe infinite dall’istituto. Scappava sempre, ma tutte le volte lo riprendevano. L’istituto era gestito dalle suore che a suo dire erano delle streghe, e lo picchiavano in continuazione.  Ad ogni modo una volta raggiunta la maggiore età, se ne andò definitivamente da Milano che per lui era una città incubo e da quel momento aveva sempre fatto il barbone.

La sua storia era davvero triste, ma quando raccontava tutte le sue avventure che erano quasi sempre disavventure, lo faceva con una simpatia e con un senso dell’umorismo tale, che Enzo sentendo le mie risa ci raggiunse al tavolo sul marciapiede e si unì a noi. Era come vedere un spettacolo. Diceva che i primi tempi che era arrivato a Roma, per guadagnare qualche soldo si era presentato a Cinecittà per fare la comparsa e lo avevano scelto per fare una parte , nel film “RUSSICUM” di Pasquale Squitieri. Ma quando il regista dava il ciak egli cominciava a ridere come un deficiente non riuscendo a trattenersi. Gli dissero più volte che non doveva ridere e che ovviamente doveva quantomeno stare serio e con la faccia naturale. Ma lui non ce la faceva , così dovettero cacciarlo .

Poi raccontò che una volta la Polizia lo fermò e gli chiese i documenti, e lui che non aveva motivi per essere preoccupato, poiché non aveva precedenti penali glieli diede con una certa tranquillità. I poliziotti fecero un rapido controllo con la radio trasmittente. Poi uno dei due gli disse:”Così..non hai nessun precedente penale..?” E Giuseppe che non mentiva rispose “No..come le ho detto sono pulito”. Non fece in tempo a finire di parlare che il poliziotto gli diede uno schiaffo.  Allora ti rifaccio la domanda..sei mai stato arrestato? Hai precedenti penali?” e Giuseppe che davvero era in buona fede, pur sapendo che avrebbe ricevuto un altro schiaffo gli disse quello che per lui era la verità :”No..come le ripeto sono pulito..” E giù un altro schiaffo, ma stavolta molto più forte, a tal punto che Giuseppe cadde a terra. La storia per farla breve, era che Giuseppe aveva dei precedenti penali per oltraggio a pubblico ufficiale. Ma era successo molti anni prima e non si ricordava più di quella cosa. Inoltre il suo avvocato gli aveva assicurato che la denuncia sarebbe stata cancellata dopo cinque anni e che quindi non sarebbe risultata nella fedina penale.  Ci disse che da quel giorno , tutte le volte che lo fermava la polizia, appena gli chiedevano i documenti e il suo nome, egli rispondeva sempre allo stesso modo:

Salve, sono Giuseppe Oltraggio!”.

Giuseppe era alcolizzato. Quel poco che aveva per vivere se lo procurava spacciando hashish. Ma anche in questo non era molto bravo poiché se lo fumava quasi tutto. A volte invece vendeva i morsetti da muratore. Entrava di notte nei cantieri edili e rubava i morsetti che servono per fissare i tubi innocenti con cui si fanno le impalcature. Ne prendeva più che poteva. Poi andava a rivenderli negli altri cantieri. Quella sera per me fu il massimo del divertimento. Giuseppe era davvero esilarante nel raccontare le sue storie, e appena gli veniva meno l’ispirazione ci chiedeva di pagargli da bere. Quasi sempre una birra piccola allungata con un pò di gin, e dopo averla bevuta ricominciava con le sue storie tragicomiche. La sera seguente tornai in quel bar per rincontrarlo. Ma dopo circa un ora, ancora non lo vedevo arrivare così pensai che si fosse imbattuto in un altro dei suoi casini. Poi, mentre feci per andarmene, lo vidi. Notai che era in compagnia di un amico che poi mi presentò, si chiamava Palmolive. Palmolive era il soprannome. Lo chiamavano così perché aveva una rara malattia alla pelle. I piedi e le mani gli si spellavano in continuazione e sembrava avesse le mani perennemente insaponate. A causa di quel disturbo epidermico era stato lasciato dalla moglie e dalla figlia di dieci anni. Così lui, che era astemio cominciò a bere, e poco a poco perse anche il lavoro. Senza lavoro non poté più permettersi una casa e diventò un barbone. Mi accorsi subito che Giuseppe non era di buon umore quella sera. Facemmo due chiacchiere velocemente, poi mi salutò regalandomi un pò di fumo. Non lo rividi mai più. Tornai a casa col pezzetto di hashish in tasca. Io fino a quel momento non avevo mai fumato dell’hashish . Solo una volta, un anno prima ,mi era stato offerto da un amico ad una festa.  Ma avevo fatto solo un paio di tiri e a dire il vero non ci avevo provato niente di che. Ad ogni modo la mia curiosità mi spingeva a voler provare, ma non sapevo come si faceva uno spinello. Non sapevo che il fumo andava scaldato e figurarsi se sapevo rollare una canna. Così la sera successiva andai da Enzo poiché aveva sicuramente più esperienza di me in materia.

Enzo disse che si trattava di “cioccolato” e un tutta la serata ci facemmo tre canne. Tanta era la quantità che Giuseppe mi aveva regalato.

Ben presto mi accorsi che facendomi una cannetta ogni tanto, mi sentivo più calmo e rilassato. Mi si aprivano le cosiddette “porte della percezione” e mi sentivo in sintonia con il mondo. Così dopo un pò di tempo cominciai a farmele da solo. Imparai a rollare e andavo a comprare il fumo nei pressi della stazione Termini. Se non lo trovavo lì andavo in una piazzetta , dove c’erano quasi sempre dei marocchini che spacciavano. Frequentavo la zona della stazione e anche se era un pò squallida spesso si rivelava molto utile. Per esempio nei periodi di crisi monetarie,quando non avevo i soldi per comprare le sigarette, era sufficiente andare là con un pacchetto vuoto. Dopodiché cominciavo a chiedere in giro “Scusi ha una sigaretta?”. Essendo una stazione così grande, immaginate quanta gente potesse esserci a qualsiasi ora del giorno. Dopo una decina di minuti tornavo a casa con il pacchetto pieno. Ormai abitavo a Roma da circa quattro mesi. Roma in Agosto era completamente deserta. Nel frattempo anche Enzo era tornato a Napoli per le vacanze. Io decisi di rimanere. Tornavo a casa circa una volta ogni due mesi, poiché volevo continuare ad ambientarmi nella mia nuova città. Così telefonai ai miei e dissi che sarei rimasto a Roma anche se il parcheggio rimaneva chiuso per tutto il mese di Agosto.

Ma la verità era che l’hashish assunto regolarmente almeno una volta al giorno,cominciava a manifestare nella mia psiche i primi effetti collaterali che consistono per lo più in :senso di svuotamento,voglia di isolarsi e paranoie varie. Ma in quel momento non potevo saperlo. Per me era un’esperienza nuova. Mi accorgevo col passare dei giorni che il mio carattere stava un pò cambiando. Avevo meno voglia di scherzare, ero raramente di buon umore e soprattutto stavo sempre da solo. Il che era inusuale per me, ma motivavo il tutto pensando che fosse per via del cambio di città e della nuova vita che mi accingevo a fare. Non davo assolutamente importanza al fattore canne. Per me al momento erano qualcosa di positivo.  In quel mese ero veramente solo. I ragazzi che abitavano con me erano tutti rientrati per le vacanze, per cui l’appartamento era libero. Ed anche quelli della facoltà che conoscevo e che incontravo ogni giorno erano di colpo spariti. Come se non fossero mai esistiti. Così ne approfittai per fare il turista, Da quando ero arrivato mi ero premurato di cercare l’appartamento ed il lavoro, e dopo cinque mesi di permanenza non avevo visto nemmeno il Colosseo.  Alcuni amici , erano venuti a trovarmi durante il periodo dei mondiali per assistere a Italia-Cecoslovacchia. Durante il giorno avevano visitato la città e i principali monumenti, ma io non ero potuto andare con loro perché dovevo lavorare. Ad ogni modo decisi di visitare per primo proprio il Colosseo. Ci andai a piedi. Da dove abitavo era abbastanza vicino. Era sufficiente passare per una via e attraversare completamente Colle Oppio , un bellissimo parco dove io ed Enzo andavamo a fumare. Arrivai all’entrata del Colosseo dalla parte dei fori Imperiali. Erano circa le undici di mattina. Mi accorsi che non c’era quasi nessuno. Neanche i turisti stranieri che solitamente affollavano quelle zone. Era un periodo davvero particolare, probabilmente c’era una sorta di svuotamento momentaneo per via del “dopo Mondiali”. Ad ogni modo entrai nel Colosseo. All’interno c’ero solo io.  Non rimasi molto tempo, anzi a dire il vero il Colosseo non mi entusiasmò. Provai a pensare intensamente a quello che era successo là dentro molti anni prima. Cercai di instaurare una sorta di contatto con il passato, ma non fu una bella esperienza. Immaginavo le persone sbranate e straziate dai leoni. La gente che si esaltava alla vista di quell’orrido spettacolo, e il sangue che scorreva a fiumi. Mi stancai subito di fare il turista.

Roma d’agosto era una fornace. Decisi di andare al mare.

La prossima settimana il capitolo 13

“Il mare, un’impresa”