Palle cinesi – La mia autobiografia

Nel 2004, ho scritto la mia auotobiografia. L’intenzione era quella di parlare delle tante esperienze sul palco, e di tutto ciò che ruota attorno al mondo della musica, ma scrivendolo mi sono accorto di avere molti argomenti della mia vita privata che avrebbero potuto interessare alle persone che mi seguono ed ho voluto condividerli con loro.

“Palle cinesi”, così si chiama il libro (Allori ed.) parla della mia vita e delle mie esperienze da quando ero bambino fino a quando ho fondato la band.

Per ragioni di privacy alcuni nomi sono stati cambiati con nomi di fantasia.

“Conosco e sono amico di Titta da tempo. Con lui e la sua musica ho passato tanti momenti piacevoli da arrivare egoisticamente a considerarlo un menestrello quasi privato,come se cantasse solo per me e si dedicasse solo al mio divertimento. Mai però avrei pensato che la sua sfrontatezza e la voglia di mettersi a nudo l’avrebbe portato a regalarci la storia della sua vita. Una storia di piccole storie,di gente comune lontana dal passaggio dei grandi eventi.Una vera e propria autobiografia. Simpatica e gradevole. Densa di episodi vissuti,ricordi semplici e forse apparentemente insignificanti, ma veri,come vero e pieno è il suo bisogno di mettersi alla prova e di vivere esperienze sempre nuove. Raccontare di sè è un momento importante,una dichiarazione dei propri sentimenti e stati d’animo che serve a capire meglio se stessi e aiuta gli altri a comprenderci. Impone un lavoro di recupero e trasmissione della memoria,che significa entrare nell’intimo dei ricordi e del proprio vivere quotidiano. A costo di riportare a galla anche episodi dolorosi del proprio vissuto. E’ un segno di grande generosità e vi ritrovo appieno il Titta che conosco”.

(Enrico Laghi)

CAPITOLO 1

GIU’ ALLE MARCHE

Mi chiamo Giuseppe Tittarelli in arte “Titta”.

Sono nato a Ravenna il 20 Maggio del 1969. Sono nato alla casa di cura “Domus Nova” che si trova propio di fronte alla scuola “Pavirani” dove ho frequentato le elementari.” I miei genitori originari delle Marche, si trasferirono in Romagna nei primi anni sessanta. Mio padre fu assunto da un’azienda di nome “Enichem” che allora si chiamava “Anic”.  Mi sono sempre chiesto come ha fatto a mantenere una famiglia di cinque persone con uno stipendio da operaio senza farci mai mancare niente. Ancora oggi da un momento all’altro, mi aspetto che salti fuori la storia che sia coinvolto in un traffico di droga e che in tutti questi anni noi non ne sapevamo niente. Dopo mia sorella Cinzia che nacque nel 1964,nacqui io nel 69. Poi mia sorella Ilaria nel 1975. I miei ricordi,le mie prime esperienze,le mie prime cotte,le mie prime sbronze, sono tutte tutte legate al paese d’origine dei miei genitori: Fabriano. Lì avevamo comprato una casa che mio padre a poco a poco aveva sistemato. Tutti i giorni e per tutta l’estate, andavo con mio cugino ed alcuni amici nel fiume. Abitanto a Ravenna, negli anni a venire, avrei conosciuto la bellezza e la straordinarietà del mare, ma il primo contatto con l’acqua l’ho avuto con il fiume. Ci andavamo la mattina presto e rincasavamo la sera, a volte non tornavamo neanche per il pranzo. Si andava per fare il bagno e per tuffarci dalle rocce circostanti, ma bisognava stare molto attenti e scegliere il punto giusto da cui buttarsi,poichè qualche anno prima, il figlio del guardiapesca, era morto proprio sbattendo la testa in una roccia che si trovava nel fondale.  Noi non andavamo per pescare. Per pescare occorreva saper usare bene la canna,muovendola ed agitandola ad arte. A volte prendevamo il sole,oppure pescavamo qualche pesce col retino e alla fine della giornata li ributtavamo tutti in acqua.

Non ho mai avuto la passione per la pesca o per la caccia, ma in paese era pieno di pescatori e cacciatori. Ce n’erano alcuni che pescavano i gamberi con le mani. Già proprio così! Lo zio di un nostro amico un giorno ci fece vedere come faceva. Andava nella zona del fiume dove l’acqua era bassa, dove arrivava all’altezza del ginocchio e si dirigeva ai lati , negli argini, nelle tane dei gamberi. Poi , così alla cieca, ci infilava le mani dentro. Non ho mai capito dove trovasse il coraggio, perché quelli erano quei gamberi molto grossi, simili alle aragoste e con due grosse chele,pronte a tagliare le falangi di chiunque avesse messo le mani dentro. Ma lui le infilava senza guanti e un attimo dopo ne tirava fuori anche due in un colpo solo.

Un’estate che camminando nel fiume col retino, vidi una cosa nera che da lontano pareva una macchia d’olio. Mi avvicinai incuriosito e vidi che erano girini di rana,a centinaia,tutti in superficie e attaccati tra loro a tal punto da formare una macchia nera. Ne presi una decina e li portai a casa. Presi una vaschetta che trasformai in un piccolo acquario e li misi dentro. Volevo vedere se sarebbero diventati ranocchie,ma sinceramente non avevo molte speranze. Pensavo che morissero di lì a poco come mi era capitato l’estate precedente con un passerotto che era caduto dal nido e che dopo soli due giorni era morto. Ma con i girini fu diverso. A parte i primi due che morirono subito,gli altri pian piano crescevano, giorno dopo giorno. Nella vaschetta avevo messo del muschio che avevo preso dal fiume ed evidentemente si cibavano di quello. Con mio grande stupore e meraviglia vidi che a tutti gli otto girini, dapprima spuntarono le zampe posteriori,poi dopo qualche settimana quelle anteriori. Poi dopo circa un mese praticamente eranto diventati rane, ma era rimasta la coda che fu l’ultima a scomparire. Fu davvero un’esperienza straordinaria vedere la loro trasformazione. Successivamente li portai nel fiume prima che cominciassero a saltellare per tutta la casa.

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La settimana la trascorrevo sempre al fiume, poi la domenica arrivava la grandescocciatura: i miei mi portavano a Messa. Andare a messa per me era peggio che scaricare un camion di patate. Non perché fossi contro la religione. Semplicemente mi rompevo le palle. Ricordo che a volte piangevo di brutto perché non ci volevo andare, ma i miei praticamente mi obbligavano . Per loro, molto religiosi, andare in chiesa era una cosa talmente normale che non si chiedevano neppure se era giusto andarci o meno. Ci andavano e basta. Nel paese d’origine di mio padre facevano la messa cantata , per cui il tutto durava un’eternità, forse due ore, e l’omelìa poteva durare anche quaranta minuti. Le donne erano posizionate tutte da una parte e gli uomini dall’altra, e quando attaccavano a cantare erano davvero bravi. C’era un certo Battista che aveva una voce da far invidia a qualsiasi baritono di professione. La sua voce era ferma,limpida e armoniosa,praticamente si sentiva cantare solo lui. Era davvero un piacere ascoltarlo. Per cui ogni domenica mi recavo in chiesa come se andassi ad assistere un concerto. Io almeno la vivevo così. Il parroco ,Don Antonio, non era molto ben visto dai fedeli. Non che avesse fatto niente di male, o almeno non volontariamente. Qualche anno prima,mentre si recava in chiesa con la sua Lancia Fulvia,un ragazzino aveva di colpo attraversato la strada e lo investì in pieno uccidendolo. Fu un fatto del tutto accidentale, poteva capitare a chiunque . Quel ragazzo sbucò così all’improvviso rincorrendo il pallone che il suo amico aveva calciato lontano. Ma il fatto che era capitato ad un prete cambiò non poco le cose. Almeno per gli abitanti del paese. Quel prete non era più un prete al cento per cento, lo era un po’ meno. Un giorno mi recai dietro la chiesa, nella sua stanza privata, e mi avvicinai perché mi faceva un pò pena, lo vedevo sempre solo. Mi chiese da dove venivo, e di chi ero figlio. Poi mi diede tre grosse candele di cera dicendomi che avrei potuto giocare con quelli. Così mi sedetti nella piazzetta di fronte all’entrata della chiesa, dove ormai dopo la messa c’erano solo alcuni vecchi che giocavano a morra. Estrassi il mio piccolo coltellino che portavo sempre con me, e cominciai al intagliare i grossi ceri, con l’intenzione di ricavarne delle statuette. Seppure possa sembrare un fatto di poco conto, quel giorno significò molto per me, poiché alla fine del lavoro feci due statuette che raffiguravano un gatto e un cane, e mi erano riuscite assai bene. La sera andai a dormire a casa di mio zio e misi le statuette in un ripostiglio vicino la stalla.  L’indomani quando mi svegliai andai subito a prenderle ma non le trovai. Allora chiesi a tutti se qualcuno le aveva viste, fino a quando mio zio mi disse che le aveva buttate trovandole mentre sistemava il ripostiglio. Io andai su tutte le furie, gli inveii contro insultandolo. Penso di non aver mai odiato così tanto nel corso della mia vita nessun altro come odiai quel giorno mio zio.

La domenica mattina prima di andare in chiesa , mia madre ,che frequentava i cimiteri come un alcolista frequenta i bar, mi portava a visitare le tombe dei nostri parenti scomparsi. Io non conoscevo nessuno , erano tutti zii e zie di mia madre che erano morti prima che io nascessi.  Per cui ci andavo solo per dovere. Per fare contenta mia madre. Ma un giorno mi accorsi che vicino alle lapidi dei miei parenti, qualche metro a fianco, c’era la foto di un ragazzo. L’immagine era in bianco e nero e ritraeva un ragazzino in costume da bagno e alle sue spalle si vedeva il mare. Aveva un costume nero intero,di quelli che si usavano una volta, praticamente un body per uomini. Aveva un viso soddisfatto e gli occhi felici, come se quello fosse il suo primo giorno al mare. Chiesi a mia madre come mai era morto, e mi disse che era stato investito da un treno, quando aveva 10 anni. Lei lo conosceva bene, aveva la sua età quando morì. Ne rimasi molto dispiaciuto. La mia idea della morte era solo riferita a i vecchi . Mai avrei pensato che un bambino della mia età potesse morire senza assaporare la vita come facevo io. Dopo quel giorno tutte le volte che mi recavo al cimitero, passavo prima davanti alle tombe dei nostri parenti, poi dopo avere pregato per loro, mettevo dei fiori anche sulla tomba di quel ragazzo.

Nel paese c’erano dei personaggi a tutti gli effetti, e il più folle era sicuramente Angelo “il pecoraro”. Lo chiamavano così perché suo padre possedeva una decina di pecore,da cui ricavava latte e formaggi. Poi la domenica li vendeva al mercato. Angelo all’epoca aveva 14-15 anni, ed era un pazzo scatenato. Con suo fratello maggiore,Nicola, aiutava suo padre a pascolare il gregge, ma ogni tanto dava di matto e scappava, e stava via per alcuni giorni. In paese si raccontava che avesse iniziato a fumare le sigarette a sei anni, e a dieci a bere il whisky che prendeva di nascosto da suo padre. Era un vero ribelle, ma la cosa strana è che la sua non era una famiglia trasandata. Suo fratello era una persona molto seria,un gran lavoratore, e si vergognava come un cane per tutti i casini che combinava.  Ma Angelo non lo faceva per cattiveria,o per fare un dispetto a qualcuno o per odio nei confronti della sua famiglia. Era così e basta. Ricordo che aveva una passione sfrenata per gli esplosivi. Costruiva delle vere e proprie bombe , e una volta durante un’esplosione perse due dita della mano. Ma non gliene fregava niente, la sua passione per i botti era troppo forte. A 15 anni passava le notti giocando a poker nelle bische clandestine dei bar, con tutta gente di 35 – 40 anni. Un pomeriggio mi trovavo nel locale da ballo del paese,un dancing, e stavo gustando un ghiacciolo con alcuni amici. D’un tratto entrò Angelo. Era completamente ubriaco. Me ne accorsi perché venne verso di me barcollando . Poi si recò verso il bancone e senza dire una parola prese un bicchiere e lo buttò per terra rompendolo. Il gestore che un po’ lo temeva perché sapeva che tipo era, gli chiese perché lo avesse fatto. Lui sempre senza proferire parola e con una freddezza da far invidia ad un lord inglese, prese un altro bicchiere,questa volta più grosso e lo fracassò contro il muro. A quel punto il barista si incazzò di brutto e gli disse “Che cazzo fai??! sei impazzito?Smettila!”  Angelo lo guardò dall’alto verso il basso,come si guarda uno a cui non si da importanza.  Poi con voce ferma disse “ Stanotte ho vinto un sacco di soldi al poker, e c’è pure uno che mi deve un appartamento, per cui ora sfascio tutto, poi non ti preoccupare, ti pago tutti i danni”.  Il gestore era allibito. Rimase muto per qualche secondo poi disse :” Ma vattene! Tu non sfasci proprio niente!” ma Angelo era irremovibile, allungò un braccio e prese una bottiglia di Cynar, la osservò un poco, poi la scaraventò per terra. Anche quella finì in mille pezzi. Poi guardò di nuovo il barista e gli fece “ Tranquillo, ho detto che non ti devi preoccupare,prima sfascio quello che mi pare poi pago tutto quanto”.  Era fatto così gli piaceva sfasciare le cose,soprattutto con l’esplosivo.  Quel giorno dovettero chiamare i carabinieri per impedirgli di distruggere il bar.

In paese abitava anche Fernanda. Fernanda era una ragazza semplicemente splendida, a tutt’oggi una delle donne più belle che abbia mai visto. Era più grande di me di alcuni anni, per cui lei mi considerava solo un amico. Diceva che le ero simpatico per via di come pronunciavo la zeta alla romagnola. Ma io ero innamorato di lei. Tutto il paese ne era innamorato.  Essendo così piccolo non avevo provato nessuna esperienza sessuale. Non conoscevo il mio sesso, e non immaginavo neanche lontanamente quello che un uomo e una donna avrebbero potuto fare insieme ,nella loro intimità, ma ne ero attratto ugualmente. Fernanda era una ragazza molto esile, piuttosto magra, ma semplicemente perfetta. Aveva delle forme meravigliose,con due gambe da modella , i capelli biondi e ricci che parevano d’oro sino alle spalle . Gli occhi azzurri e sul viso appena un accenno di lentiggini . E aveva un modo di camminare che ti faceva perdere la testa soltanto a guardarla andare via.Era davvero straordinaria, sembrava  venuta da un altro pianeta. Non aveva niente a che vedere con tutti gli altri abitanti del paese. Portava sempre con sé un mangianastri, e su una cassetta aveva registrato dalla radio “Un’emozione da poco” di Anna Oxa e “Cobra” della Rettore.  Le ascoltavamo insieme decine e decine di volte. A me invece piacevano Rino Gaetano e Alberto Camerini. Stranamente, nonostante fosse così bella, non era fidanzata. Probabilmente perchè per un ragazzo non era facile misurarsi con la sua bellezza e la sua intelligenza. Per cui i maschi del paese morivano dalla voglia di possederla, ma appena le si avvicinavano erano tutti un po’ impacciati. L’altro motivo era la sorella di Fernanda, Tiziana, soffriva di una malattia molto rara che la faceva svenire di continuo. Si diceva in paese che dipendesse dal fatto che i loro genitori erano cugini,per cui avendo lo stesso sangue c’erano molte possibilità che i loro figli potessero nascere con un handicap, e così era successo con Tiziana. Capitava che andavamo al fiume insieme e da un momento all’altro, così senza motivo, sua sorella sveniva. Per cui bisognava starle vicino poiché dopo gli svenimenti occorreva riaccompagnarla a casa. Fernanda era molto attaccata a sua sorella e per niente al mondo l’avrebbe lasciata sola col suo problema, e ancor meno l’avrebbe affidata ad un assistente sociale.  Per cui fidanzarsi con lei significava “accollarsi” quel problema non da poco, e tutti i ragazzi del paese erano restii . Tranne io, ma ero troppo piccolo.

Palle cinesi

In paese viveva anche Siringa. Quando uno viene soprannominato Siringa , è perché o fa l’infermiere, o perché è un tossicodipendente. Siringa non faceva l’infermiere. Si faceva da quando era alle medie,poi un giorno seppi che partì per la Spagna e di lui non ebbi più notizie. Un altro personaggio sicuramente singolare era Bambola. Lo chiamavano così perché a causa della sua calvizie, cominciò il trapianto dei capelli. Poi però perse tutti i suoi risparmi al poker ed e non potè continuare la cura.Cosicchè i pochi capelli trapiantati gli stavano tutti radi sulla testa lucida e sembrava davvero una bambola.  Poi c’era Bruno il “giardiniere”, un omone gigantesco sui 50 anni, molto gentile e disponibile con tutti, ma quando era con suo figlio sull’autoscontro al Luna Park, dava in escandescenza. Picchiava tutti quelli che gli andavano addosso e non riusciva a capire che l’autoscontro era fatto apposta per quello. Se uno lo tamponava , lui scendeva dall’abitacolo e prendeva per il bavero il malcapitato alzandolo da terra.  Quando in pista c’erano Bruno e suo figlio, tutti viaggiavano a velocità di crociera.  Da piccolo avevo un senso dell’umorismo piuttosto macabro. Probabilmente perché in quel periodo guardavo sempre un film che mi piaceva tantissimo e che si intitolava “Harold & Maude”. Parlava di un ragazzino della mia età, che si divertiva ad inscenare finti suicidi. Ad ogni modo una volta ne combinai una davvero grossa. Era il giorno di Pasqua, e la mia famiglia era a tavola con tutti i parenti, i nonni,i cugini e anche gli zii venuti da Roma. C’era mio zio Armando, abruzzese di origine, ma romano di adozione, che aveva sposato la sorella di mio padre.  A tutt’oggi non ho mai visto una persona che mangia così tanto come mio zio. Ricordo che ogni qualvolta ci riunivamo a pranzo da mio nonno per le feste, il vero spettacolo per tutti noi bambini, era veder mangiare nostro zio Armando. A parte la pasta che ne mangiava in quantità industriale,soprattutto i vincisgrassi, aveva una passione per i piccioni,fagiani e faraone. Era davvero incredibile vedere che alla fine del pasto, quando erano tutti al caffè o al dolce, egli chiedeva se era avanzata un po’ di carne. Quel giorno,finito di pranzare, io e la mia amichetta Maria Vittoria, con la quale c’era già un po’ di intesa nonostante la nostra giovanissima età,ci recammo al fiume a fare un giretto. Mentre camminavamo sull’argine ci fermammo a raccogliere qualche bacca. C’erano delle piante con tanti pallini rossi,e ne raccogliemmo un po’. Quando li toccai e li strinsi tra le mie mani mi accorsi che ne fuoriusciva un liquido rosso scuro, che somigliava molto al colore del sangue. Per cui mi venne un’idea che sul momento mi parve geniale. Mi posizionai sotto ad un dirupo, mi cosparsi tutto il corpo con il nettare rosso di quelle bacche,soprattutto la camicia bianca che indossavo per onorare la domenica Pasquale, poi mi distesi supino con le braccia e le gambe aperte come fossi morto. Dopodiché dissi a Maria Vittoria che avremmo fatto uno scherzo. Le dissi di andare a casa e a dire a tutti che ero caduto in un burrone e che ero ferito. Lei divertita, e senza rendersi conto di quello che stavamo facendo (ancora oggi mi vengono i brividi a raccontarlo) corse immediatamente a dare l’allarme.Dopo neanche cinque minuti, i miei genitori,mia sorella, i miei cugini e tutti i parenti,in tutto una ventina di persone arrivarono sul posto. Urlavano come pazzi,mia madre svenne alla mia vista, e mio padre scese di corsa dal dirupo venendomi in soccorso. Passarono pochissimi secondi che furono sufficienti per farmi rendere conto di quello che avevo combinato, e quando mio padre mi mise un braccio attorno al collo per alzarmi, continuai a fingere ancora un po’ perché non avevo il coraggio di dirgli che era uno scherzo.Poi inevitabilmente aprii gli occhi. Guardai mio padre come a dirgli che stavo bene, e gli dissi il sangue era finto. Quando intuì il tutto,dopo avergli mostrato tutte le bacche spremute per ottenere il finto sangue, mi prese per il colletto della camicia e mi diede uno schiaffo. Io mi girai d’istinto e cominciai a piangere, così mi diede altri due calci nel culo, provocandomi un dolore che durò diverse settimane. Quella fu l’unica volta in tutta la mia vita che mio padre mi picchiò.

Come dicevo, da piccolo non ero violento, solo una volta avevo fatto a botte, ma ero stato pesantemente provocato. Era successo quando avevo 8-9 anni. Nel quartiere dove abitavo , giocavamo spesso con la cerbottana. Il tubi per fare le cerbottane li prendevamo nel negozio del padre di un nostro amico, che vendeva canarini. Usavamo quei tubicini rigati che si mettono nelle gabbiette per farci stare su gli uccelli. Poi andavamo nel negozio di vernici per comprare lo stucco che usavamo per costruire i “proiettili”. Un giorno mia madre mi sgridò di brutto perché arrivai a casa con una grossa quantità di stucco nei capelli, che mi era stato sparato durante le “battaglie”. Per cui diventò scema per togliermi tutto quell’appiccicaticcio dai capelli senza poterli tagliare, poiché solo all’idea minacciai di scappare di casa.  Così il giorno seguente radunai tutti e “firmammo” una sorta di patto bellico, in cui si stabiliva che da quel momento in poi era vietato sparare lo stucco in testa durante i combattimenti.  Ma un certo Saracco, che aveva la fama di piantagrane ,e che noi chiamavamo sempre per cognome come fosse un dispregiativo,non rispettava l’accordo. Continuava a sparare dove gli pareva. Anzi da quel momento mirava sempre alla testa,e soprattutto lo faceva con me, poiché ero stato io a lanciare l’idea del nuovo regolamento. Tutte le volte che tornavo a casa mia madre si imbestialiva sempre più trovandomi per l’ennesima volta con lo stucco in testa. Ma io che ci potevo fare? Glielo ripetevo sempre a Saracco. Gli dicevo di smetterla perché mi stavo incazzando seriamente. Cercavo di convincerlo a rispettare le nuove regole, ma lui sembrava ci provasse gusto a farmi innervosire, e tutte le volte che giocavamo con la cerbottana mirava alla mia testa, e quando mi colpiva rideva compiaciuto. Un pomeriggio sotto un sole cocente, durante una partita di calcio, Saracco giocava contro di me, e praticamente mi aveva massacrato fregandosene chiaramente del pallone, e colpendomi ripetutamente con calci nei garretti. Non so perché ma era evidente che ce l’aveva con me. Si divertiva a farmi innervosire, ormai era chiaro.Finita la partita mentre stavo per andare a casa, mi sentii chiamare.  Mi voltai e vidi Saracco con la cerbottana in bocca. Sparò un paio di pallini di stucco che si infilarono dentro i miei capelli sudati.  Quello a tutt’oggi rimane l’unico momento di tutta la mia vita dove posso dire di aver perso totalmente il controllo di me stesso. Mi gettai come una furia contro di lui, gli presi la cerbottana dalle mani e con tutta la mia forza lo picchiai con quella ,che si ruppe sulla sua testa solo dopo un paio di colpi. Poi lo spinsi all’indietro facendolo cadere a terra, e cominciai a picchiarlo con una serie di calci da tutte le parti. Allo stomaco. Ai fianchi. E in faccia. Ero inarrestabile, e tra i ragazzini che assistevano alla scena nessuno aveva il coraggio di intervenire. Ci divise solo mio padre che proprio in quel momento stava tornando dal lavoro in bicicletta.  Appena vide la scena gettò la bici a terra e venne verso di noi separandoci.  Io ero ancora sconvolto per il nervoso che mi era preso e non riuscivo a calmarmi. Saracco si fece un mese di ospedale per fratture varie.

Se non fosse intervenuto mio padre a separarci l’avrei ammazzato.

La prossima settimana il Capitolo 2

“Intanto crescevo”.