Palle cinesi – la mia autobiografia 9 Capitolo

Nel 2004, ho scritto la mia auotobiografia. L’intenzione era quella di parlare delle tante esperienze sul palco, e di tutto ciò che ruota attorno al mondo della musica, ma scrivendolo mi sono accorto di avere molti argomenti della mia vita privata che avrebbero potuto interessare alle persone che mi seguono ed ho voluto condividerli con loro.

“Palle cinesi”, così si chiama il libro (Allori ed.) parla della mia vita e delle mie esperienze da quando ero bambino fino a quando ho fondato la band.

Per ragioni di privacy alcuni nomi sono stati cambiati con nomi di fantasia.

“Conosco e sono amico di Titta da tempo. Con lui e la sua musica ho passato tanti momenti piacevoli da arrivare egoisticamente a considerarlo un menestrello quasi privato,come se cantasse solo per me e si dedicasse solo al mio divertimento. Mai però avrei pensato che la sua sfrontatezza e la voglia di mettersi a nudo l’avrebbe portato a regalarci la storia della sua vita. Una storia di piccole storie,di gente comune lontana dal passaggio dei grandi eventi.Una vera e propria autobiografia. Simpatica e gradevole. Densa di episodi vissuti,ricordi semplici e forse apparentemente insignificanti, ma veri,come vero e pieno è il suo bisogno di mettersi alla prova e di vivere esperienze sempre nuove. Raccontare di sè è un momento importante,una dichiarazione dei propri sentimenti e stati d’animo che serve a capire meglio se stessi e aiuta gli altri a comprenderci. Impone un lavoro di recupero e trasmissione della memoria,che significa entrare nell’intimo dei ricordi e del proprio vivere quotidiano. A costo di riportare a galla anche episodi dolorosi del proprio vissuto. E’ un segno di grande generosità e vi ritrovo appieno il Titta che conosco”.

(Enrico Laghi)

 

CAPITOLO 9

“Vita da operaio”

Nei primi mesi del 1988 iniziai a lavorare per una ditta di montaggi industriali e ci rimasi fino al 1990.

La ditta aveva appalti di lavoro presso una raffineria che era stata molto importante per la città negli anni addietro, poi andò quasi in disuso. C’erano pochi serbatoi funzionanti e la maggior parte del lavoro riguardava lo smantellamento. Io ero sempre aiutante tubista-carpentiere.

Spesso tra gli aiutanti, tutti ragazzi come me,si parlava di questo o quell’altro operaio. Ognuno parlava del suo e più che altro si spettegolava. C’era quello tranquillo che nonostante avesse quasi cinquant’anni non li dimostrava affatto, c’era quello che non faceva altro che parlare della moglie dicendo da anni che voleva lasciarla ma che non trovava mai il coraggio di farlo, c’era il trentenne che passava tutte le notti a bere, ballare e a fare chissà quale altra cosa ma che sul lavoro era sempre impeccabile, e c’era quello intrattabile, che ce l’aveva col mondo intero. Non aveva particolari problemi tranne quelli che avevamo un po’ tutti: noia, stanchezza per il lavoro faticoso e incazzatura perenne per la paga da fame rispetto alle otto ore che tutti i santi giorni dovevamo passare là dentro.

Io ero con uno di questi. Si chiamava Rizzo ed era Calabrese.

Rizzo era carpentiere specializzato. Il lavoro del carpentiere nel nostro caso, consisteva nel montaggio di lamiere o corrimano per scale di ferro. Rizzo aveva in effetti qualche motivo in più per essere sempre di cattivo umore. Anzitutto stava lontano dalla famiglia che vedeva una volta al mese, poichè la moglie e le sue due figlie non avevano voluto trasferirsi in Romagna . E poi aveva seri sospetti che la moglie avesse un amante. Ad ogni modo negli ultimi tempi era diventato davvero insopportabile, bestemmiava per qualsiasi cosa gli andasse storto, e se anche qualcosa gli andava per il verso giusto faceva in modo che gli andasse male. Aveva perso ogni speranza di ritrovare un po’ di pace e di buon umore così era diventato praticamente autolesionista. Questo però era anche un mio problema, perché il lavoro era già abbastanza pericoloso di per sé,visto che capitava di dover saldare i tubi in altezza e a volte senza neanche troppe garanzie di sicurezza, ed in più dovevo farlo con uno che spesso e volentieri dava di matto. Una mattina , durante l’ ennesima infuriata lanciò un martello contro un muro. Ma davanti al muro c’ero io. Il martello, scagliato con una forza inaudita mi sfiorò la tempia e mi passò ad un centimetro,non di più. Deve essere stato così perché sentii l’aria spostarmi i capelli. Poi una volta rimbalzato dal muro cadde verso me e mi colpì una gamba. Avevo senza dubbio rischiato la faccia e probabilmente la vita e appena mi ripresi dallo shock andai dal capocantiere.

Garfagnin il capocantiere, che mi sembra di ricordare che fosse di Rovigo, mi disse di pazientare un po’ e di cercare di capire la situazione visto che con Rizzo non ci voleva lavorare nessuno. Ma questo era veramente troppo, non potevo certo rischiare la vita, così gli raccontai l’accaduto e gli dissi in modo categorico che non avrei più lavorato con lui a costo di licenziarmi. Mi chiese se avevo intenzione di riferire l’accaduto ai “piani superiori” per denunciarne la gravità, ma non volevo mettere in difficoltà Rizzo. Volevo solo cambiare aria.

Così durante la pausa pranzo mi venne incontro dicendomi che aveva ricevuto ordini per un lavoro da eseguire in una centrale elettrica poco distante. Serviva un operaio per montare un impianto di depurazione, più un aiutante. Ci andai io.

L’operaio con cui avrei dovuto lavorare si chiamava Semprini . Il lavoro che dovevamo eseguire richiedeva un paio di giorni ed il fatto che avremmo dovuto trasferirci in un altro cantiere mi rese felice. A dire il vero mi bastava cambiare operaio ma una favorevole coincidenza mi diede l’opportunità di cambiare anche il posto di lavoro. Meglio così.

Semprini era abbastanza basso di corporatura e piuttosto grasso, aveva i baffi e pochi capelli sulla testa. Non lo conoscevo bene perché era stato assunto da poco dalla ditta per cui lavoravo. Venne da noi perché nell’azienda dove aveva lavorato in precedenza, volevano a tutti costi mandarlo in piattaforma e così si era licenziato. Ad ogni modo il lunedì seguente ci presentammo al cantiere dove dovevamo montare un impianto di depurazione che consisteva nel depuratore stesso, simile ad un grosso motore, e un un tubo d’alluminio che partiva dal depuratore e saliva in alto per circa dieci metri.

Nonostante fossimo solamente alla fine di Aprile era un caldo micidiale. Alla TV dissero che quella fu la settimana più calda di tutto il 1990. Estate compresa.

Il depuratore doveva essere montato all’interno della struttura, ma vicinissimo alla parete in quanto il tubo d’ alluminio sarebbe dovuto passare all’esterno, per cui in precedenza era stato montato un ponteggio con i tubi innocenti e le assi di legno per dare noi la possibilità di lavorare. Facevamo praticamente dentro e fuori, spostando con un carroponte il depuratore per posizionarlo. Poi avremmo dovuto fissarlo nella sua posizione e saldarlo. La saldatura doveva essere perfetta in tutti i punti e quello era il lavoro che richiedeva più tempo. Il primo giorno lo passammo a studiare bene come fare il tutto per cui non facemmo niente concretamente, ed il martedì cominciammo il lavoro vero e proprio. Durante il lavoro stavamo sul ponteggio, quindi all’esterno. Faceva un caldo torrido e c’era molta polvere nell’aria.

Semprini si era dimenticato di portarsi l’acqua da casa per cui ogni mezz’ora mi diceva di andargli a prendere una bottiglia fresca dal distributore per le bevande. Il distributore si trovava al terzo piano della centrale e l’ascensore era perennemente fuori uso. Così feci più volte le scale. Appena gli portavo l’acqua se la beveva tutta d’un fiato e dopo mezz’ora mi ordinava di andare a prenderne un’altra. Gli dissi che gliene avrei prese un paio o anche di più così per un po’ era a posto. Non potevo farmi vedere gironzolare tutto il tempo dai responsabili del cantiere. Ma lui disse di no, ne voleva una alla volta così ce l’aveva sempre fresca. Rimasi un po’ contrariato ma lo assecondai. Verso le 17 quando avremmo dovuto finire la giornata di lavoro, il depuratore era posizionato , ma non avevamo ancora iniziato a saldarlo, per cui serviva un altro giorno di lavoro.

Ma io sapevo che i responsabili della centrale avevano appaltato il lavoro alla ditta per cui lavoravo dicendo che erano sufficienti due giorni per finire. Ad ogni modo nessuno ci di disse niente e nelle otto ore del giorno successivo finimmo la saldatura e consegnammo il lavoro, ma anche quel giorno feci avanti e indietro per le scale diverse volte per andare a prendere da bere all’operaio. Il giovedì tornai a lavorare nel cantiere dove mi trovavo in precedenza. Quella mattina non mi misero in coppia con alcuno poiché dovevo saldare delle piastre di ferro e potevo farlo anche da solo, ero abbastanza bravo a saldare. Gli operai con cui avevo lavorato mi avevano consigliato di prendere il patentino da saldatore così da ottenere una qualifica e guadagnare di più. Ma non lo feci. Non mi interessava.

Verso le undici vennero a chiamarmi e mi dissero che Garfagnin voleva parlarmi. Mentre mi dirigevo nella sua “baracca” (così chiamavamo il container adibito ad ufficio) già immaginavo qual’era il problema e di cosa il capo volesse parlarmi, ma ero abbastanza tranquillo, in fondo il responsabile del lavoro era Semprini, io ero solo l’aiutante per cui avrebbe pagato lui nel bene o nel male.

Ad ogni modo mi recai nell’ufficio, ma appena entrai vidi che oltre al capocantiere era presente anche l’ingegner Tosetto il primo responsabile della TGS, e lì ebbi un po’ di timore poiché mi fissò subito in malo modo. L’ingegner Tosetto era famoso per i suoi metodi Hitleriani. Qualche mese prima durante una normale giornata di lavoro il capocantiere si accorse che gli elettrodi che dovevano essere usati per le saldature si erano tutti sciolti. Gli elettrodi sono dei bastoncini di ferro rivestiti ,lunghi circa trenta centimetri con cui si fanno le saldature. Si mette l’elettrodo nella pinza elettrica, e sfiorando il contatto con il ferro, si dà vita ad una combustione che scioglie l’elettrodo con il ferro, e avviene la saldatura.  A volte come nel nostro caso questi elettrodi vengono conservati in piccoli fornetti al caldo in modo che non prendano umidità. Così era successo che inavvertitamente o volontariamente qualcuno aveva alzato al massimo la temperatura del fornetto e in poco tempo tutti gli elettrodi, due o tre mila si erano sciolti ed erano perciò inutilizzabili. Era sicuramente un bel danno, con una perdita economica per la ditta non indifferente.

elettrodi-fusibili

Appena lo seppe, l’ingegner Tosetto che usava sempre indossare un cappotto Loden blu scuro e un papillon rosso fuoco, ci chiamò tutti e ci mise in riga a mò di interrogatorio. Voleva assolutamente sapere chi era stato e disse che avrebbe atteso una risposta anche per tutta la giornata. Nessuno si fece avanti anche perché a mio avviso la cosa successe accidentalmente. Sarebbe stato sufficiente strisciare inavvertitamente la manopola dei gradi durante la chiusura del fornetto, poiché il pomello era molto sporgente. E poi non credevo all’idea che qualcuno si fosse divertito a fare uno scherzo del genere. Scherzi ne facevamo certo, ma non di quel tipo. Ed il fatto che l’ingegner Tosetto pensasse che qualcuno di noi lo aveva fatto di proposito ci offendeva tutti. Il colpevole non saltò fuori e l’ingegnere ce li fece pagare ad ognuno di noi, trattenendoci i soldi dalla busta paga.

Il capocantiere mi disse che per il lavoro alla centrale avevamo impiegato un giorno in più e che quindi la ditta aveva dovuto pagare la commissione ad un prezzo più alto, e aggiunsero che non erano soddisfatti del nostro operato. Dichiaravano di aver visto un operaio aggirarsi per tutto il tempo su e giù per le scale della centrale.  Mi voltai verso l’ingegner Tosetto per dirgli che era stato Semprini ad ordinarmi di andare a prendere l’acqua di continuo, ma lui mi precedette dicendomi che Semprini, che tra l’altro in quel momento non era presente nell’ufficio, si era lamentato perché io andavo sempre a prendere da bere e che quindi non lo avevo aiutato.  Da qui il ritardo.

Non sapevo cosa dire, rimasi semplicemente esterrefatto, Garfagnin mi guardava con gli occhi di chi pensava che la cosa non fosse andata proprio così e quasi mi spingeva a dire la verità o quantomeno a dare la mia versione dei fatti. Ma non dissi nulla. Con quella gente non ne valeva la pena, e poi l’ingegner Tosetto non avrebbe mai dato importanza alla mia parola. La parola di un ragazzino. Il giorno successivo mi spedirono in un altro cantiere dove il lavoro era decisamente più pesante, evidentemente quello che secondo loro avevo fatto, anche se non era andata così, non era tanto grave da licenziarmi, ma quel trasferimento sapeva tanto di punizione. Ad ogni modo continuai ad essere sereno nonostante tutto, perché da tempo,si stava concretizzando in me l’idea di trasferirmi a Roma per frequentare una scuola di recitazione per entrare nel mondo del cinema.  Un mese dopo mi licenziai io.

La prossima settimana il capitolo 10

“I due anni di Roma tra droghe,puttane,trans”